Su un caso disciplinare

Tag

, ,

Nel 1971 insegnavo italiano e storia in un Istituto Tecnico per il Turismo, a Milano. Stava per finire il movimento 1968-69, smorzato anche dai gruppuscoli settari installati nella scuola. L’episodio cui si riferiscono queste pagine non ebbe conseguenze rilevanti, quando lo studente M.B. si trovò, insieme col proprio padre, davanti al Preside, si chiarì l’ovvia tensione edipica che lo aveva portato alla “ribellione” verso il docente. Tuttavia questo documento mi pare interessante e lo ripropongo oggi, dopo quindici anni, perché chi legge possa valutare somiglianze e differenze fra la situazione di allora e la attuale. Per quanto è, soprattutto, dai due paragrafi conclusivi, mi pare di non dovere, oggi, mutare opinione.

1. Di che cosa stiamo realmente discutendo? Nego si tratti del danno che vi potrebbe venire da una punizione disciplinare. Non è in gioco l’onore o la ‘faccia’ di un insegnante. Egli può essere tutt’al più addolorato o innervosito. Avessi, anche per un momento, pensato che fosse in giuoco la mia ‘dignità’, non sarei degno di insegnare.

Cerchiamo di individuare la questione di principio ossia la radice politica della questione. Vorrei dimostrare che essa è largamente indipendente dalla vicenda di fatto, e che le parti in causa non siamo voi e io, ma voi, io cioè noi, e altri.

Una sola premessa ma molto importante. Rifiuto – e con collera – qualsiasi discorso del tipo: “Lei è troppo abile, è troppo sottile, con lei non si può discutere”. Frasi del genere vogliono, in sostanza far riferimento ad una mia condizione di privilegio; culturale, intellettuale o di età. Ebbene, posso anticipare una delle conclusioni per dire che proprio di questo si parla. Ci si chiede o ci si dovrebbe chiedere se questa mia ‘capacità’ fa o no tutt’uno con la mia funzione di ‘maestro’. Se non è cosa dell’interesse comune che voi vi appropriate delle mie capacità e che io sappia renderle utili a voi. È questione di rapporto fra classi e all’interno di una classe. E’ un caso della situazione di classe degli intellettuali e degli studenti.

2. Due parole sulla questione di fatto. La mia versione è che M.B., la mattina di venerdì 21, dopo che era stato dettato un tema e che era stata da me rifiutata una discussione la quale avrebbe resa impossibile l’esecuzione del tema, resa necessaria dall’imminente fine dell’anno scolastico, si sia rivolto ai compagni incitandoli a non fare il compito; che, richiesto di tacere, abbia risposto villanamente e poi, ripetutamente invitato a uscire, si sia rifiutato. Di qui un incidente che ha impedito qualsiasi attività scolastica per l’intera mattinata. Di qui un mio rapporto al Preside perché il Consiglio di Classe prenda i provvedimenti che riterrà opportuni.

La vostra tesi è quella che non c’è colpevolezza personale di M.B. perché egli era il portavoce degli altri. Se colpa c’è, essa è di tutti, dite.

Replico che nulla mi permetteva di supporre che M.B. parlasse a nome della comunità. Non basta esprimerne il pensiero per esserne investito di rappresentanza. Che egli si rivolgesse ad una parte prova l’inesistenza di una unanimità. Ma neanche una eventuale unanimità autorizza alla villania. M.B. ha agito in proprio anche se esprimeva il pensiero dei più: sono questi ultimi che, a cose fatte, hanno voluto assumere una corresponsabilità.

3. Ma la vera indagine comincia ora. Perché vi assumete questa corresponsabilità? Ci sono ragioni psicologiche e politiche elementari. Vogliamo essere solidali, si risponde, con un compagno perché è come noi, è dalla nostra parte; mentre i nostri avversari sono gli ‘altri’, coloro che comandano e i loro rappresentanti o agenti, dai ministri ad Agnelli, fino al preside e ai professori, non eccettuati quelli di ‘sinistra’ che si dicono dalla parte degli studenti salvo impugnare gli strumenti della repressione: il regolamento, il codice, l’autorità.

Ci avviciniamo al centro, del discorso.

Esiste la solidarietà? O non esistono le solidarietà: quella di una classe sociale e quella di una mafia, quella di una età e quella di una setta, quella che aiuta a crescere e a migliorare e quella che invece conferma, ripete e immobilizza? La solidarietà studentesca, quale si è configurata negli ultimi anni, è una solidarietà mista: vi intervengono elementi di età e status (unione contro i padri e i prof) ma soprattutto interviene una imitazione (tanto generosa quanto approssimativa) della solidarietà operaia. Quest’ultima, come si sa, non è affatto spontanea. Spontaneamente, gli operai possono giungere appena ad una solidarietà sindacale. È una solidarietà indotta dal grado di esperienza della lotta di classe. Se questa non è coscientemente esercitata ma solo subita, la solidarietà si forma al grado più basso. Per analogia: nella misura in cui la condizione studentesca somiglia – ma somiglia soltanto – alla condizione operaia, in quella misura si forma in voi tutta una gamma possibile di solidarietà da quella meno profonda e più politicamente inconsistente a quella più profonda e politicamente più efficace. Il passaggio dall’una all’altra è dato dal livello a cui si svolge il conflitto; dal livello di coscienza, dalla conoscenza delle proprie coordinate sociali.

Essere solidali significa quindi sapere con chi ci si unisce e perché; ma anche chi si esclude dalla solidarietà e perché. Con chi si debbano intrattenere solo rapporti di alleanza. E chi veramente è l’avversario. Fedeltà e solidarietà, bisogna aggiungere, sono virtù; ma politica non è virtù, politica è capacità, anche, di saper distinguere fra fedeltà ai superiori e inferiori, solidarietà tattiche e solidarietà strategiche.

Voi sembrate ritenere che la difesa dell’operato di M.B. o meglio, la difesa della virtù della solidarietà – in aula o in scuola – sia un valore assoluto. Che la si debba praticare indipendentemente dall’avversario specifico che quella solidarietà, con il suo stesso porsi, determina. Io non lo credo. Credo che la solidarietà ha un valore relativo ad una situazione data. E che, nel caso specifico, una generosa spinta ad una solidarietà di tipo elementare non vi abbia fatto valutare la possibilità di una solidarietà di tipo più alto: che aiutasse veramente M.B. e voi con lui e me con voi. Quando, anche alla vigilia di un combattimento, un comandante partigiano faceva fucilare il compagno che avesse derubato dei contadini, egli interrompeva una solidarietà apparente per ristabilirne una più alta.

4. Dobbiamo quindi guardare alle circostanze e alle conseguenze. Parlare di politica. Ma non posso parlarne che per accenni; e riferimenti ad ipotesi che in altre occasioni ho cercato di comunicarvi.

Mi chiedo e vi domando se si ritiene che oggi, nella attuale situazione, sia possibile ed utile contestare per intero l’istituzione scolastica, come è stato fatto nel 1968-69, proporsene l’abbattimento integrale. Non sono io a chiedermelo. È tutta la Nuova Sinistra a chiederselo. Tutti i gruppi della Nuova Sinistra si domandano che cosa c’è stato di errato nello slogan che puntava alla distruzione della scuola. La contestazione globale ha condotto soltanto ad aprire il terreno, a fornire la giustificazione politica alla riforma guidata dal moderno capitalismo e gestita dalla Democrazia Cristiana e dai suoi alleati, con l’appoggio del Pci. Oggi appare chiaro che il movimento degli studenti ha solo accelerato un movimento di dissoluzione che era cominciato senza di loro e che – come in Usa e altrove – rientra perfettamente nei piani generali dello sviluppo capitalistico o almeno ne è la conseguenza. La dissoluzione della1 vecchia scuola classista, umanista, elitaria, fondata sullo studio e sulla disciplina (una scuola che voi non avete conosciuto) era già prevista dalla istituzione della Media Unica, era già scritta nell’aumento della popolazione. Gli studenti sono statigli enzimi necessari alla velocità della dissoluzione. La prova sta nel fatto che la distanza fra chi studia o può studiare, chi sa o può sapere, chi dirige e dirigerà, chi sarà incluso nella riproduzione dell’insegnamento e chi meno studia, meno sa, meno potrà e sarà solo diretto, questa distanza, in questi anni, è aumentata. La lotta alla scuola, nell’impotenza politica delle Nuove Sinistre, ha non prodotto – ma aiutato a produrre una massa di dequalificati e di ignoranti. E oggi ha perduto anche il diritto a ripetere i suoi slogans: perché nella pratica quella lotta non c’è; o sembra vivere di soprassalti. È servita a scremare un certo numero di studenti, i cosiddetti ‘politicizzati’, a farne degli aspirati funzionari di partito, lasciando immutate le istituzioni. L’estremismo si è rivelato ancora una volta l’altra faccia dell’opportunismo. La scuola nella quale vivete non vi dà quasi nulla di quello cui avreste bisogno e diritto: vi costringe a orari e trasporti bestiali, non vi dà la mensa promessa, non la palestra efficiente, non il ‘tempo pieno’, non un insegnamento adeguato, divisa com’è fra aspetto formativo e aspetto professionale. Produce masse di diciottenni che appena sanno cos’è il mondo nel quale dovranno vivere; e minoranze di ‘politicizzati’ frustrati, resi dall’impotenza, profondamente infelici, che nemmeno sanno dove applicare il loro odio. Il cinismo o la disperazione, il qualunquismo o una droga qualsiasi, magari quella del ‘lavoro’ e della ‘famiglia’, vi aspettano dopo il diploma. Ma la scuola vi ha dato molto facilmente, con qualche vivace assemblea e senza teste rotte, senza espulsioni o drammatiche ‘sospensioni’, vi ha dato il diritto di non salutare gli insegnanti, di seminare le aule di cicche, di non studiare, di sbaciucchiarvi, eccetera. Vi ha dato diritti che a questa società non costano proprio nulla – o appena qualche strillo di vecchio insegnante, presto disposto al cinismo, o di genitore, presto disposto a rassegnarsi. Per intrattenervi nelle illusioni della vostra ‘terribile’ capacità rivoluzionaria, questa società organizza anche squadre giovanili fasciste, per impegnarvi in un faticoso torneo di tiro alla fune apparentemente politico.

Ed è in un istituto come il nostro, dove da mesi non si vede ombra di movimento rivendicativo e dove l’attività politica sembra limitarsi all’affissione di lunghi discorsi pieni di termini liturgici e di esclamativi – che la solidarietà scatta al suo livello più sentimentale e prepolitico.

Siete padroni di credere che l’occasione e il modo scelto per solidarizzare con M.B. siano ottimi; ma allora dovete essere certi che io che vi parlo sia vostro avversario. Non potete ancora identificare i vostri nemici.

5. Dovete scegliere quale collocazione di classe dare ad un intellettuale di formazione marxista piccolo-borghese, con trent’anni di militanza marxista. E questo vi può servire per collocare altri suoi simili. E’ uno dei problemi più delicati delle Nuove Sinistre. Vedi caso, proprio quello di cui più mi sono occupato, negli scorsi vent’anni, in libri e scritti che potete benissimo ignorare perché le idee in quelli espressi circolano ormai, come è giusto, senza firma.

Ma farlo vuol dire anche collocare voi stessi.

Non siete proletario. Siete studenti. Vivete in una età o in una condizione di privilegio. Partecipate della società presente. Anche più di me. Perché io ne ho conosciuto un’altra, anch’essa di classe, ma diversa. E voi no. Ecco perché vi dico che voi state scambiando per solidarietà classista quella che è quasi esclusivamente solidarietà di setta o di età. Voi cercate avversari facili e vicini. I veri avversari sono difficili e lontani.

Ritengo che sarebbe da parte vostra atto di maturità politica riconoscere che nella situazione presente taluni elementi della vecchia legalità scolastica – come fare i compiti, studiare, seguire lezioni e avere un rapporto corretto con gli insegnanti – possono essere non solo utili ma preziosi per mantenere un certo spazio, una certa area nella quale possa formarsi il maggior numero possibile di persone capaci di capire il mondo e la società e di intervenirvi. Ho detto ‘situazione presente’; domani si vedrà. Ho detto ‘il maggior numero’; e non una élite. Sarebbe atto di maturità politica distaccarsi dal ribellismo piccolo-borghese e anarchizzante per analizzare con attenzione che cosa vuol regalare la Nuova Scuola ministeriale, permissiva e ‘progressista’ e che cosa c’era invece da portare via, come vecchie travi di quercia, dalle rovine della scuola classista e selettrice che non avete conosciuta.

6. E per quanto è dell’episodio disciplinare – che cosa fare per trasformarlo in un atto i progresso politico?

Penso che voi, M.B. ed io, abbiamo tutti quanti qualche cosa da fare.

Voi dovreste, penso dichiarare a voi stessi che se anche M.B. Era coinvolto in una decisione collettiva (ma evidentemente non unanime) il suo comportamento è stato errato perché individualistico, estremistico e dannoso all’elevazione politica della vostra classe. Dovreste saper distinguere fra la ragionevole difesa di M.B. da sanzioni autoritarie esagerate o vendicative e condanna; invece, educativa e verbale dello scarso senso di responsabilità di M.B.. Alla sanzione disciplinare nei confronti di M.B. credo si debba attribuire un valore simbolico. Significa sapere – anche se a ripetervelo sia un’autorità, quella scolastica, che discute – significa sapere che nella scuola non si deve rifiutare quell’ordine, quella ubbidienza all’ordine, che in una sua limitata misura è forse l’unica garanzia e condizione perché oggi, nella scuola, si possa fabbricare l’autodisciplina necessaria a disfare e rifare, ma con tutta la società, anche la scuola. È niente di meno che l’uso rivoluzionario delle istituzioni.

Penso che M.B. dovrebbe dichiarare ai propri compagni e a se stesso di aver capito che la contestazione nevrotica danneggia la contestazione vera, che l’arma della solidarietà si spunta, come quella dello sciopero o della occupazione, se è usata a vanvera e alla prima occasione. Lo ripeto: alcune delle vecchie regole della vecchia scuola, (non perché vecchie né perché quelle ma perché regole) hanno una funzione protettiva sempre valida contro l’anarchia immobilizzante.

L’unico modo di non collaborare alla formazione di una autorità nuova, preparata da altri, è crearsela da sé. Questa autorità deve avere la capacità di giudicare e punire. Voi avete il diritto di rifiutare o di non valutare il giudizio di un consiglio di professori; ma in quanto abbiate la capacità di giudicale e di sanzionare i vostri errori e le vostre colpe.

Quando saprete giudicare ed eventualmente condannare voi stessi. Anche per questo vi parlo.

Quanto a me, penso di dover dichiarare di avere errato nell’aver conferito alle mie parole e ai miei atteggiamenti, nella nostra occasione, accento, tono, sarcasmo o eccesso che possono essere scambiati per minaccia autoritaria o rifugio in una legalità formale, esterna. Mi siano scusati l’angoscia per i temi che vedo venire innanzi, e l’età che non mi lascia troppo spazio di attesa.

7. Non accetto altra condizione che non sia quella di eguale. Voler essere vostro eguale vuol dire affermare io, e riconoscere voi, che vi sono superiore in esperienza e sapere, che esperienza e sapere sono privilegi ma che di tali privilegi non ho da vergognarmi perché quel che sembra mio non è mio. Io non sono proprietario di me stesso e del mio sapere. Né voglio essere servo di nessuno. Nemmeno del ‘popolo’ (il popolo si servirà da sé). Non voglio chiedere il permesso di esistere (e di essere utile) ai semicolti e mezzi intellettuali neotirannelli politici che con le loro nevrosi di potere hanno contribuito a far imputridire i moti degli studenti negli scorsi tre anni. Il mio solo modo di essere eguale è di lavorare per esserlo. Nessuno deve capitolare a nessuno. Voi non siete ‘la classe’ né io sono ‘la verità’.

Se volete situarmi fra gli avversari e i nemici, fatelo. Ma non sarete voi ad averlo fatto. Lo avrà fatto, dentro le vostre teste, il nemico comune che ci divide e oppone. Io continuerò (perché è tutto quel che so fare) a cercare di capire.

«Azimut» V, 26, novembre-dicembre 1986